Decreto sicurezza: la relazione del Massimario della Corte di cassazione – profili di incostituzionalità

Pubblicata la relazione n. 33/2025 (molto critica) dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di cassazione avente ad oggetto il cd. “decreto sicurezza”.

129 pagine che evidenziano le molteplici criticità nel provvedimento normativo: mancato rispetto dei requisiti costituzionali di necessità e urgenza, norme frammentate e prive di coesione, misure penali eccessive e uso improprio del decreto-legge come scorciatoia politica.

Un sistema normativo che privilegia l’anticipazione repressiva e la funzione simbolica del diritto penale, a scapito dei principi di legalità, proporzionalità e finalità rieducativa della pena, con il rischio di essere dichiarato totalmente o parzialmente incostituzionale.

Il decreto ripropone quasi integralmente il disegno di legge 1660, già approvato in prima lettura dalla Camera il 18 settembre 2024 e in attesa di esame al Senato. Secondo la dottrina, non sono emerse nuove circostanze che giustifichino i «casi straordinari di necessità e urgenza» previsti dall’articolo 77, comma 2, della Costituzione. La motivazione addotta – evitare ulteriori ritardi al Senato, dove il testo avrebbe potuto essere approvato con modifiche – è stata giudicata da numerosi giuristi «insufficiente» e «apodittica».

Il testo riprende quasi integralmente un disegno di legge già in discussione da mesi in Parlamento. Ed è proprio questo il nodo centrale: «Sei lunghi mesi di esame del ddl sicurezza al Senato e altrettanti alla Camera dimostrano, più di ogni altra cosa, l’assenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza», afferma la Relazione, citando studiosi e critici. Non si tratta soltanto di una questione temporale. Il governo ha motivato l’uso del decreto con l’intento di «evitare ulteriori ritardi in Senato», ma la Corte costituzionale è stata chiara: «Il ricorso al decreto-legge non può basarsi su una semplice enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e urgenza» (sentenza n. 171/2007).

Inoltre, le motivazioni dell’urgenza non sono state illustrate nella relazione al disegno di legge di conversione: vengono menzionate solo in un documento successivo, che si limita a parlare in modo generico di «una risposta sanzionatoria e dissuasiva più incisiva nei confronti di gravi fenomeni delinquenziali». Tuttavia, anche questa giustificazione, secondo gli esperti, risulta generica e tautologica.

C’è un altro problema: la disomogeneità. Il decreto affronta temi molto diversi tra loro, configurandosi come un vero e proprio «florilegio di presupposti» – come lo definiscono diversi giuristi – che rende il provvedimento «materialmente eterogeneo». Secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 146/2024), quando un decreto tratta troppe materie non collegate da una finalità comune, si evidenzia una mancanza di reale urgenza. La questione assume un’importanza ancora maggiore in ambito penale. Il decreto ha introdotto numerose nuove norme incriminatrici con effetto immediato, senza prevedere alcuna vacatio legis.

Secondo l’Associazione italiana di professori di diritto penale, questa normativa «viola il principio di colpevolezza» sancito dall’articolo 27 della Costituzione, poiché «chi compie un atto deve poter sapere in anticipo se esso è punibile come reato» (Corte cost. n. 54/2024). Ma non è tutto. Alcune aggravanti introdotte colpiscono il luogo e il contesto del reato, prevedendo pene più severe se il fatto avviene durante una manifestazione o un corteo. Tali disposizioni mirano quindi a colpire, con chiaro intento repressivo, l’ambito della manifestazione del dissenso, soprattutto «dove emergono con maggiore evidenza disagio, disuguaglianza e povertà».

Sul piano dei principi costituzionali, i rilievi sono diversi. Si parla di violazione del principio di proporzionalità, della tassatività della norma penale, della personalizzazione della pena, del principio di offensività, secondo cui una condotta può essere punita solo se lede effettivamente un bene giuridico. La relazione cita ancora l’Aipdp e molti giuristi, secondo cui questo decreto è figlio di una visione del diritto penale che punta tutto sul carcere e sulla repressione: una sorta di “more of the same”, cioè la ripetizione sterile di politiche penali punitive, che finiscono solo per aumentare i procedimenti e allungare i processi.

Si tratta di «ipertrofia penalistica», di «vocazione simbolica» e di una concezione della sicurezza «punitiva e repressiva, lontana dal dettato costituzionale». In sintesi, per molti questo decreto rappresenta un esempio emblematico di abuso dello strumento del decreto-legge, utilizzato per accelerare i tempi a scapito della Costituzione, piegata a logiche di consenso.

Nel caso, ad esempio, delle rivolte in carcere, la relazione sottolinea come la norma sia eccessivamente repressiva, attribuendo rilevanza penale a comportamenti che potrebbero invece rappresentare forme legittime di dissenso o manifestazioni di tensione fisiologica in contesti carcerari già fortemente compressi. Inoltre, si evidenzia il rischio di configurare una responsabilità basata sullo status (detenuto) piuttosto che su comportamenti effettivamente lesivi, adottando un approccio che alimenta logiche di sospetto e profilazione soggettiva.

Quanto all’induzione all’accattonaggio, il testo rischia di confondere la marginalità con la criminalità, imponendo sanzioni eccessive per comportamenti legati alla mera sopravvivenza.

L’introduzione di una specifica aggravante per le violenze o minacce ai danni di pubblici ufficiali appartenenti alle forze dell’ordine sarebbe una inutile duplicazione rispetto ad altre aggravanti già esistenti, come quella relativa ai pubblici ufficiali in generale, generando così una differenziazione ingiustificata tra diverse categorie di pubblici ufficiali.

Questo potrebbe portare a un diritto penale identitario, finalizzato più a una riaffermazione simbolica dello Stato che alla reale tutela delle funzioni pubbliche.

Infine, in materia di esecuzione penale per le madri detenute, la relazione critica severamente la riforma, evidenziando il rischio di violazione dei diritti del minore, della Costituzione e delle convenzioni internazionali, oltre a una discriminazione indiretta nei confronti delle donne più vulnerabili. Si teme un ritorno a un modello punitivo che sacrifica la funzione rieducativa della pena e la tutela del legame madre-figlio in nome della sicurezza.